Poesie edite su "L'AquilaNOI"

Te luna canemus


Te
canemus, luna strepitosa,
quando ti affacci ancora sul
mattino, all’aria tersa e pura
della nottte ombrosa, fatta insonne,
di tutto quel lucore che spaura.
Ed io mi chiedo, forse ingenuamente, 
se anche le lune amano gli umani,
perché s’è ver che tutto stilla
Amore all’universo mondo delle
cose create, quell’energia di luna,
dico, Soma, Selene e Cynzia, anche
la luce lacrima di te, fanciulla
amata, luna adorata. Non un
granello o raggio esiste nell’
immenso andare che non abbia
il sentire di un respiro immane.
In ogni cosa si presenta Amore,
(e tu non indagare!) Sol tu lo
ammiri, goccia di un’acqua
dentro equoreo
mare.


Schiuma 


Alta
sul mare, ti
solleva il vento,
schiuma ricca di spume,
bianche e salse, man
pigliano te, inafferrabile,
inquieta meraviglia.
E l’uomo sogna d’esser
lui, fanciullo, tra le braccia
tue, dove fu vita,
a perdersi nel tempo,
tra diverse forme,
per cui gli umani
dissero “infinita”. 


Sonno eterno

(A L’Aquila che non c’è più)


Sembra in un sonno eterno L’Aquila addormita, sotto un’eterna
luna, a notturne necropoli giacenti ove i suoi morti vagano silenti
tra chiassetti e calli, sparsi dai venti tra i contorti muri. E un arco
crolla; ha perso un’architrave la sua porta, e dov’era un palazzo
ora son orti, improvvisati da una scialba luna. Ora non più
la dea Fortuna avrà il suo tempio, a cui salivano le ancelle
supplicanti. Vagano pigri, con filosofia torme di gatti miagolanti.


Nuova Gerico


Alle trombe di Gerico cadute son le mura tue antiche, o mia città
dalle contorte vie, dove la sorte aleggia nella notte, da millenni, come
un enorme falco, che lasciò la casa della Morte per visitare tutte le sue
grotte. E la volta del cielo, e tutte le sue stelle, come ignare, sotto un
crudo destino che, da sempre, ammucchia dei fantasmi nelle bare.
Ma proprio lì, starai, con le tue mura, inerte e a capo chino? Quando
tutta d’intorno ride la campagna, ed eterna e pura svetta la montagna?


L’Aquila in rosa


Dal Collemaggio la tua Rosa splende tutta di marmo
 e tutta trifiorita. Sembran tre soli i cerchi in cui si sposa
 la dolce Aurora dall’eterne dita, o mia ferita città!
 ma che non sa i tramonti! E questo incuora. Evoca
il primo cerchio il Dio degli universi mondi, allude 
l’altro all’aquilana conca dove è Sita; e il terzo:
è un cuor che batte, e freme, d’un’eterna vita.


La mia sposa


Se
canta Maggio
ai nostri lieti amori
andremo, o noi, per ombre
sparse. O Aulete, tu che
sei divino, ispira dunque
il mio corsaro cuore
a che la barca tua giunga
alla rosa, ché lento è il
fiume, e Foce
è la mia sposa.


La rete


Sopra
falce di luna
vedo una
bimba, pescatrice
canna
puntata
al cielo, in
smisurato stelo. O voi,
di lune audaci!
Sappiate che dovete
voi ai poeti, la
celeste rete di
favole
indiscrete.


L’ultimo valzer


Che
cosa sia più dolce
di un violino
se fa sera?! Senti, ch’è un valzer,
sì, di Strauss
che sta narrando il suo
Danubio Blu.
Vola nell’aria come
una preghiera
e sale, e scende, in mezzo
a quelle onde
ove dormon le ore
più
profonde. Tu
tu, ti ricordi,    Ombretta,
di quando tu venivi
in su la sera,
e noi danzanti? E
noi non si sapeva
di celebrar quaggiù
l’ultimo valzer
d’una sognata
eterna gioventù.


Gioventù dell’aria


Quando
sboccerà l’ultima
rosa
noi piangerem
la gioventù dell’aria
e la pioggia
cadrà, varia, come
allora.
Ancora noi
vedrem
quel po’ di aurora
 che ci adombra il viso
nascosta sotto
un flebile
sorriso.



La fanciulla e il mare

(Ballata - Alla mia indimenticabile Morgana)


C’era
dunque una volta
una bionda fanciulla
che alla croda del mare
arrivò. E lì, una barca
con vele il bel vento
cullò. Salì sulla proda
ma intento a dormire trovò
un marinaio che in sogno
chiamava il suo amore;
colpita nel cuore coi baci
l’amato svegliò: «poiché
mi hai destato, fanciulla
indiscreta, su, giurami amore
tu giuralo o taci…»
Lei aveva un anello di
nome Fedele ch’era frutto
d’un tempo che amato lei
aveva; lo tolse, e nel mare
profondo il monile gettò.
I pesci, i delfini, le orate, e
balene cantavan per loro
le nenie più care. Ma un giorno
là, dietro gli scogli
una bruna sirena il suo
amore furò, e a lei non restaron
che i giorni e le notti più amare.
Così un bel giorno, d’amore
ferita, lei volle nell’onde
lasciare la vita. I pesci e
i delfini dal grande lor cuore
portaronla a riva con vivo
clamore e tutti piangevan di
un cupo dolore. La barca
impotente dondava nel vento
alle vele. Ma un cane disperso
a lei si appressò; lambendo
le mani il bel viso destò.
Così il Dio del Mare, spandendo
la voce, le disse, che d’esser
fedele agli umani un dio
non ha dato, ma ha concesso
l’onore del dono al mirabile
cuore di un cane trovato.

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